11 sonetti di Ferrante Carafa

Ferrante Carafa (1509-1587).

I sonetti sono tratti da Le rime spirituali della vera gloria humana in libri quattro et in altrettanti della divina del nobile napoletano Ferrante Carafa, marchese di San Lucido, pubblicate nel giugno del 1559 a Genova da Antonio Belloni, grande protagonista della scena culturale e in particolare di quella poetica, e non solo nel Regno (a lui il grandissimo Giolito dedicò, per mano di Ludovico Dolce, nel 1552 le Rime di diversi illustri signori napoletani). L’opera è composta da 284 sonetti della “gloria humana” (che rielabora il testo biblico da Adamo alla passione di Cristo) e da 227 sonetti della “gloria divina”, dedicati alla rielaborazione del Nuovo Testamento, dalla Resurrezione di Cristo all’Apocalisse e alla prefigurazione del giudizio finale.

1.
Prologo.

Se già dietro a l’error, che molti andaro,
e de la nostra e di ciascuna etate,
cantando una mortal egra beltate,
spesi il più del mio viver dolce amaro,

or che (mercé del cielo) amando imparo
quai sian le glorie eterne alme e beate,
spregio queste bellezze sì pregiate
dal mondo e amo il sol più ardente e chiaro.

Onde a lui volgo lo mio basso ingegno,
a lui sacro la penna, a lui l’inchiostro,
a lui la mente, a lui do l’alma e ‘l core.

Dunque, o Rettor de l’alto empireo chiostro,
per tua pietà, non ch’io di ciò sia degno,
manda al mio petto il tuo celeste ardore (p. 1r)

2.

Come, di rugiadose e verdi fronde
ripieni, i bianchi vermicciuo’, che fanno
il serico gentil, tessendo vanno
le stanze ove ciascun di lor s’asconde,

così chi delle glorie empie e profonde
terrene è gonfio e sazio, con grave danno
si trova involto nel suo proprio affanno,
e gode fra tempeste ed orrid’onde.

Ma come, del lor male accorti, i vermi
escon farfalle, e buon seme spargendo
sen van per l’aria lieti a volo in fretta,

così l’uom, mentre vive, i sensi infermi
può risanare e l’alma grazia avendo
per l’opre, andar fra l’alta schiera eletta (p. 2v)

3.

Quanta fu la bontà, quanto l’amore
che Dio mostrò con sua gloria infinita,
quando nel minacciar morte e dolore
al primo uom, pur ne dié speme di vita,

dicendo al serpe fier: -Nimico ardore
fra te pongo e la Donna, e virtù unita
ella avrà tal, che tutto il tuo furore
opprimerà con pianta e mano ardita-.

Ma questo altro non fu che la Reina
del ciel, che col suo unico frutto sopra
il legno ne dié quel ch’Eva ne tolse.

Eva tolse del legno, e la divina
Maria vi pose: e perciò Dio tal opra
sovra gli angeli tutti in sen si accolse (p. 5v)

4.

Quando a l’aurato carro i bei destrieri
giunge, oltra il Tauro, Apollo, uscendo fora
del grembo di Titon la bella Aurora,
gioisce il ciel dei suoi raggi primieri,

sperando or or veder gli altri più alteri
lumi del vago sol che il tutto indora;
ma vie più lieto il mondo e ‘l ciel fu allora
che vide gli splendori esterni e veri

de l’aurora del sol, che questo sole
ha per suo picciol raggio: egli le piume
battea per l’aria, per condurne il giorno

perpetuo, non d’un sol, com’è costume
di Febo, poi che l’alme sue parole
qua Dio condusser dal sovran soggiorno.

5.

Pria dei secoli il Verbo era appo Dio,
anzi era Dio l’istesso Verbo eterno,
per le cui mani il mondo e ‘l ciel superno
fu fatto e l’angel chiaro e il fosco e rio,

e senza lui vien meno ogni desio,
non che l’oprare esteriore e interno:
ma tal Verbo incarnato oggi io discerno
fra Maria, con la mente, e il vecchio pio,

sì che in questo è la vita e l’alma luce
che le tenebre rie da noi discaccia
ed al beato viver ne conduce.

Ei venne al mondo, e il mondo a faccia a faccia
lo vide: e ‘l suo splendor che sì riluce,
pochi seguir per la celeste traccia (p. 15r)

6.

Tante le colpe son, tanti gli errori
onde, Signor del ciel, piena è la vita
de’ nostri morti non che mortai cori,
che appena ardisco a dimandarti aita;

e i debiti son tanti, che smarrita
han l’alma nostra in tutto, ed entro e fuori,
che bisogno è che tua bontà infinita

ne alleggi di sì gravi aspri dolori,
ella rendendo di tal grazia degni
esso noi, che più tosto eterna morte
meriteremmo per lo gran fallire;

ma quanto più arem premio per martire,
al ciel condotti, più fian chiari i segni
dell’immensa pietà della tua corte (p. 45r)

7.

Non s’arresta un sol punto il tempo avaro
per condurne alla cruda orrida morte,
la qual parrebbe aventurosa sorte,
senza l’intoppo del camin suo avaro,

ove or si frange il core, ora il più caro
della vita sostegno, or la consorte
ch’ogni martir fa dolce, ora le scorte
che ne guidano al ben perfetto e chiaro.

E questo è il peggior mal, perché se ‘l pondo
terren terra diviene, o pur se l’oro
si perde, tutto riede onde partisse;

ma se le luci abbiam noi sempre fisse
nel tesor di qua giù, nel tristo fondo
l’alma scacciata andrà dal patrio coro (p. 64r)

8.

Credo nel sommo Dio, che il mondo e ‘l cielo
criò da nulla, e nel Figliuol, che scese
ad incarnarsi al vergin alvo e prese
sotto Pilato d’aspra morte il gielo;

vinse l’inferno e ‘l terzo giorno al velo
sepolto l’alma gloriosa rese;
poi salì al Padre, ch’a seder l’attese
alla sua destra con ardente zelo;

ed indi a giudicar venir dee poi
i vivi e i morti. Credo nel superno
spirito e nella catolica alma Chiesa,

e la comunion dei santi suoi,
el pietoso perdon d’ogni empia offesa
e ‘l risorger e ‘l ben vero ed eterno (p. 92v)

9.

Benché scelesti siano in terra e fieri
petti, pur la romana inclita Chiesa,
di Dio guerriera e del suo amore accesa,
mantien di Cristo i sommi onori interi.

E quantunque or da Sciti, or da alteri
Elvezi abbia una e quando un’altra offesa,
vincitrice riman d’ogni alta impresa,
del Santo Spirto avendo i pregi veri.

Ond’ella per tener mai sempre i suoi
fidi soldati in essercizio degno,
sì come sta la trionfante eterna,

celebra del Rettor del sommo regno
le feste e della sua Madre superna
e degli altri celesti invitti eroi (p. 103v)

10.

Fatte le valli eguali e piani i monti,
sangue sudando l’herbe e l’altre piante,
le case caderan profane e sante,
et ad urtarsi i sassi aspri sian pronti.

Gli huomini sì plebei, come i più conti,
si morran di maniere tali e tante,
ch’in brieve sarà sgombro il mondo errante
d’anime vive e di vivaci fonti.

Udrassi il suon de la terribil tromba
con la voce del Re de l’universo:
-Venite tutti al gran giudicio estremo-.
E si vedrà (ch’in dirlo io spasmo e tremo)
qual nero corvo e qual bianca colomba,
secondo in vita fu l’oprar diverso (p. 124v)

11.

Di statura (soggiunge) è giusta, il volto
ha così venerabil, ch’alto amore
porge in un punto a ch’il mira e timore;
biondo ritiene il crin, né però molto,

crespo insino agli orecchi, poscia involto
non è, ma piano, d’un vago colore
la fronte ha spaziosa e nulla fuore
ruga v’appar, ma bel sereno accolto;

le guancie alquanto han di vermiglie rose,
di bella forma son la bocca e ‘l naso;
schietta la man, la barba è bipartita;

rider mai non si vide, in alcun caso
di pietà pianger sì. Tal inudita
beltà natura nel Fattor suo pose (p. 107v)

I testi sono tratti da: Ferrante Carafa e i poeti baroni del Regno, di Amedeo Quondam, all’indirizzo https://ddd.uab.cat/pub/caplli/2020/234298/stuarmon_a2020n8p427.pdf

5 pensieri su “11 sonetti di Ferrante Carafa

    • Quella dei Carafa (o Carrafa) fu una delle più importanti famiglie napoletane del 1500. Oltre che un importante uomo politico, Ferrante svolse incarichi di carattere militare e fu un eccellente e stimato poeta. In aggiunta alle oltre 500 del post, conosco altre 116 sue poesie comprese nelle più importanti antologie cinquecentesche 🙂

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